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Ritorno
al futuro. Il titolo dei film della celebre saga cinematografica
potrebbe essere un sottotitolo più che mai adeguato per questo
nostro speciale. Ed
effettivamente, quando si parla di SZ e di RZ, non si può fare a
meno di pensare ad auto che possono essere considerate due vere e
proprie “macchine del tempo”, auto di fabbricazione recente che
sin dall'inizio si sono collocate al di fuori della loro epoca, auto
dal carattere forte, a metà strada tra passato e futuro. Ma andiamo
per ordine.
La
storia di questo modello inizia al Salone dell’Auto di Ginevra del
1989, nell’occasione del quale l’Alfa Romeo presentò un nuovo
prototipo.
La ES 30, il cui nome sta per Experimental Sports Car 3000,
non voleva essere semplicemente un prototipo, ma – per usare le
parole adoperate dalla dirigenza dell’Alfa nella conferenza stampa
di presentazione a Ginevra – mirava a ricoprire il duplice ruolo
di “vettura-manifesto” (idealmente destinata a comunicare nel
modo più immediato l’immagine di alta sportività e di avanzato
approfondimento tecnico propria della Marca) e di
“vettura-laboratorio” per la sperimentazione di soluzioni
tecniche d’avanguardia.
Il “progetto ES 30” fu il frutto della collaborazione di un
numero ristretto di persone: Stefano Iacoponi (il direttore del
reparto ingegneria Alfa Romeo), Walter De Silva (il responsabile del
centro stile Alfa Romeo), Giorgio
Pianta (il responsabile dell’Alfa Corse), Elio e Gianni Zagato
(dell’omonima azienda), Giuseppe Bizzarrini (della Carplast di
Piacenza, l’azienda che si occupò del progetto CAD-CAM della
carrozzeria).
Il risultato fu un’auto con la quale l’Alfa, anche sulla base
del realistico progetto di avviarne la produzione in serie limitata,
intendeva riallacciarsi alla tradizione tutta italiana (degli anni
Cinquanta, Sessanta e Settanta) di realizzare in poco tempo e con
investimenti modesti auto particolarissime, tecnicamente valide e in
grado di catturare l’interesse del pubblico, grazie anche alla
stretta collaborazione tra tecnici eccellenti e carrozzieri
abilissimi. Insomma, una perfetta sintesi di tecnologia e
artigianato d’alto livello, di esperienze agonistiche e originalità
stilistica. Lo stile scelto per questa auto fu il frutto di un
lavoro quasi maniacale in galleria del vento: alla fine si arrivò
ad un Cx di 0.30 (che su una lunghezza di soli 4 metri e 6
centimetri era cosa non da poco) e, anche alle velocità più alte,
ad una totale assenza di portanza (cioè, il flusso d’aria che si
creava intorno alla vettura non tendeva in alcun modo a farla
sollevare dal terreno). In questo senso, un aiuto non
indifferente veniva anche da una distanza dal terreno ridotta a soli
85 mm: per consentire poi di superare agevolmente le rampe delle
autorimesse o anche strade dal fondo dissestato era comunque
presente un dispositivo in grado di aumentare la luce a terra di
altri 40 mm.
La carrozzeria era realizzata in materiale sintetico, impiegando la
resina metacrilica termoindurente “Modar” prodotta dalla azienda
britannica ICI e caratterizzata da un’elevata resistenza agli urti
e alle fiamme, da una buona finitura superficiale e da ridotti tempi
di permanenza negli stampi: per costruirla si era seguito il
procedimento dell’iniezione a bassa pressione a freddo entro uno
stampo nel quale veniva preventivamente inserito un “materasso
preformato” in fibra di vetro. Il Modar resisteva agli agenti
atmosferici ed era facilmente verniciabile nei soliti impianti a
forno con temperature di 80°C. Oltre a questo materiale, si
era fatto ricorso all’alluminio per il tetto e alla più
resistente e costosa fibra di carbonio per l’alettone posteriore.
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Dunque,
una tecnica costruttiva innovativa. Altrettanto rivoluzionaria era
anche la procedura seguita per fissare la carrozzeria al telaio
realizzato in acciaio che costituiva lo “scheletro” dell’ES 30
e che derivava da quello della 75 Gruppo A utilizzata nel Campionato
Mondiale Velocità Turismo: si era fatto ricorso ad una particolare
tecnica di incollaggio utile, tra l’altro, ad aumentare
ulteriormente del 20% la rigidezza torsionale della struttura.
La definizione di “vettura-laboratorio”, quindi, era tutt'altro
che usurpata. Ma, a tal proposito, c'è anche un altro dato da
sottolineare. Infatti, nella stessa ideazione dell’ES 30, c'era un
aspetto importantissimo e, anche in questo caso, altamente
innovativo. Ci riferiamo al modus operandi seguito per la sua
progettazione, la quale fu condotta con il coinvolgimento diretto
del Centro Stile Alfa Romeo, della Zagato, dell’Alfa Corse e
persino della Pirelli (che proprio in questa occasione e
specificamente per l’ES 30 creò il suo pneumatico Pzero):
l’intero sviluppo della vettura, dalla stesura del progetto
iniziale alla definizione dell’ultimo particolare, fu
integralmente condotto ricorrendo al CAD (Computer Aided Design),
cioè con successivi interventi su un unico supporto progettuale
computerizzato al quale erano state “appoggiate” tutte le
indagini di ordine stilistico, strutturale, aerodinamico e
ingegneristico, nonché le relative simulazioni.
Si trattava di un sistema assolutamente nuovo per l’epoca e che
consentiva di eliminare tutte le intermediazioni e gli sdoppiamenti
procedurali tipici dei sistemi tradizionali: il risultato fu la
riduzione a soli 19 mesi del tempo complessivamente intercorso tra
la prima impostazione teorica e la realizzazione del prototipo.
Da quanto detto sino a questo momento, dunque, emergono chiari i
caratteri di innovazione che il prototipo ES 30 portava in dote.
Ebbene, proprio lo schema, i materiali e le tecniche di produzione
della carrozzeria erano molto indicati per la realizzazione di
vetture destinate ad una produzione a tiratura limitata, vetture per
le quali (considerati i costi e i tempi necessari) non poteva essere
conveniente realizzare appositi stampi metallici per la carrozzeria.
Tenendo presente questo fattore, si può ben capire come l’Alfa
non ebbe alcuna remora ad avviare quella produzione in serie
limitata che a Ginevra era stata data solo come possibile. Fu in tal
modo che nacque la SZ, vettura non semplicemente derivata dalla ES
30 ma addirittura identica ad essa in ogni particolare, stilistico e
meccanico. La SZ (Sprint
Zagato), al momento del suo inserimento nel listino (marzo
1990), costava 93 milioni di lire, ma nel corso del tempo il suo
prezzo superò anche i 100 milioni di lire; sin dall’inizio, ne
venne sottolineata la fabbricazione in serie limitata: meno di mille
esemplari. E infatti questa Alfa è stata costruita complessivamente
in 998 esemplari, comprendendo tra di essi anche la RZ (versione
spider dell’SZ): l’assemblaggio veniva effettuato
artigianalmente a Terrazzano di Rho, presso la Zagato.
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Un
dato importante che emerge immediatamente è il suo peso. Proprio a
causa della particolare tecnica costruttiva impiegata, infatti, non
si poteva gridare al miracolo: nonostante si trattasse di
"quattro metri" con dotazione e accessoristica ridotte
davvero all’osso, l’SZ aveva una massa a vuoto in ordine di
marcia pari a 1280 Kg. Sotto questo aspetto, il fatto di derivare
dalla 75 non l’aiutava, dal momento che la struttura portante
della scocca era sempre in acciaio: a tale struttura portante, poi,
si aggiungevano i 55 Kg di pannelli in resina termoindurente e fibra
di vetro di spessore notevole.
Anche
dal punto di vista meccanico, comunque, l’SZ come già la ES 30
era strettamente derivata dalla 75 Gruppo A impegnata nel Campionato
Mondiale Velocità Turismo.
Il
propulsore era lo storico 6 cilindri a V di 60° da 2959 cc
(utilizzato anche sulla 164 prima serie e sulla 75) con due alberi a
camme e due valvole per cilindro.
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La
potenza erogata era pari a 207 cv (156 Kw) a 6200 giri al minuto,
mentre la coppia massima di 245 Nm (25 Kgm) veniva raggiunta a 4500
giri al minuto; tra l’altro, la coppia restava vicina al proprio
valore massimo in un ampio arco di regimi, garantendo una elasticità
di funzionamento davvero notevole. Rispetto al propulsore impiegato
su 75 e 164, il V6 dell’SZ beneficiava di un incremento di potenza
pari a 28 cv (207 contro 179) ottenuto attraverso la lucidatura dei
condotti di aspirazione e scarico, l’adozione di alberi a camme
caratterizzati da un profilo più spinto, l’ottimizzazione della
bilanciatura delle varie parti. L’impianto di accensione e
alimentazione era affidato al controllo di una centralina
elettronica Bosch Motronic ML4.1 con sensore di detonazione;
l’iniezione seguiva lo schema multipoint.
Da ricordare, poi, che la SZ era dotata di catalizzatore a tre vie
con sonda lambda.
Per quanto concerne
le sospensioni, anch’esse derivavano da quelle impiegate sulla 75
Gruppo A.
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All’avantreno
trovavamo uno schema a ruote indipendenti con doppi quadrilateri
articolati (bracci trasversali e biella obliqua, molla elicoidale,
barra stabilizzatrice di generose dimensioni); il retrotreno era ad
assale rigido, secondo lo schema a ponte De Dion con parallelogramma
di Watt, braccio obliquo e biella trasversale (barra Panhard), molla
elicoidale.
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Gli
ammortizzatori erano, sia all’anteriore che al posteriore, di tipo
oleopneumatico con regolazione idraulica dell’altezza dal suolo.
Come è facile notare, quindi, si decise di utilizzare anche
all’avantreno i molloni elicoidali (coassiali con gli
ammortizzatori), in sostituzione delle molle longitudinali a barra
di torsione che sulle 75 di serie erano ancorate al pianale: questa
soluzione consentiva una messa a punto più facile e risposte ancora
più precise nella guida sportiva, in quanto il comportamento delle
sospensioni non veniva ad essere influenzato dalle deformazioni del
pianale. In più, questo nuovo schema consentiva una riduzione del
peso pari a circa 12 Kg.
Ma anche il retrotreno era stato oggetto di modifiche: sull’SZ,
infatti, la molla non era più separata dall'ammortizzatore (come
invece sulla 75), ma era concentrica a questo. Inoltre,
allo scopo di ottenere una guida più precisa e pronta e di
garantire limitate reazioni dinamiche nelle accelerazioni laterali,
erano stati eliminati dagli snodi delle sospensioni molti dei
tamponi di silenziamento in gomma presenti sulla 75 (e normalmente
presenti anche su qualunque altra automobile di produzione). Gli
ancoraggi delle sospensioni alla scocca erano del tipo "uniball",
riferendoci con questa espressione al perno sferico che viene
utilizzato negli attacchi delle sospensioni delle vetture di
competizione: essendo rigido, al contrario delle boccole elastiche,
garantisce l'esatto mantenimento della geometria voluta; il prezzo
da pagare per questa precisione di movimento consiste in un ridotto
confort di marcia, in quanto l'accoppiamento interamente metallico,
senza interposizioni di parti elastiche, trasmette tutte le
vibrazioni alla struttura della vettura. Infine, per utilizzare
al meglio le grandi potenzialità del ponte De Dion posteriore,
questo era stato realizzato in modo tale che i pneumatici non
fossero perfettamente perpendicolari al terreno: la campanatura era
negativa di 1° 30’ e la convergenza era chiusa di 1 mm.
L’impianto frenante, poi, era a 4 dischi autoventilanti (quelli
posteriori posizionati subito ai lati del differenziale) aventi un
diametro di 284 mm all’avantreno e di 250 mm al retrotreno, con
servofreno a depressione. Per esplicita scelta della Casa, non era
disponibile l’ABS: l’intenzione era quella di esaltare il sapore
corsaiolo vecchio stile.
Lo schema di trasmissione era quello tipico di tutte le Alfa a
trazione posteriore nate tra il 1972 e il 1990, cioè trazione
posteriore e schema transaxle (motore anteriore e gruppo
cambio-frizione-differenziale in unico blocco al retrotreno): il
risultato era una ripartizione del peso tra i due assali pressoché
ideale, 56% all'avantreno e 44% al retrotreno. Il cambio era
ovviamente a 5 rapporti + retromarcia, con V di potenza, e il
differenziale era autobloccante al 25% (cioè, la differenza di
rotazione ammessa tra le due ruote motrici era del 25%).
Allo scopo di abbassare il baricentro della vettura, di contenere il
rollio e di ottimizzare il rendimento aerodinamico, l’altezza dal
suolo era stata limitata (come già nell’ES 30) a soli 85 mm, un
vero e proprio "effetto suolo". Per
consentire di viaggiare su fondi accidentati o anche per superare
rampe e dislivelli era stato applicato alla sommità di ogni
ammortizzatore un martinetto idraulico che, su comando del
guidatore, sollevava la vettura di altri 40 mm: si trattava di
dispositivi sviluppati dalla Koni e che utilizzavano una pompa
elettroidraulica posizionata nel vano portabagagli posteriore.
I
pneumatici impiegati erano i Pirelli “Pzero” 205/55 ZR
all’anteriore e 225/50 ZR al posteriore; i cerchi (scomponibili e
in lega leggera) erano da 16” con canale da 7J all'avantreno e da
8J al retrotreno. Il
posto di guida era di quelli senza compromessi: l’allineamento del
sedile, dei pedali e del volante rispecchiava lo spirito sportivo
che sempre anima ogni Alfa Romeo e tutti i conducenti,
indipendentemente dalla taglia, potevano trovare adeguata
sistemazione, anche grazie agli ottimi sedili anatomici.
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I
rivestimenti dell’abitacolo erano in pelle Connolly,
abbondantemente impiegata (persino per il cielo del padiglione).
Dove non c’era la pelle (per esempio, sulla plancia portastrumenti)
vi era il tessuto di fibra di carbonio. La strumentazione era
di tipo analogico e disponeva di una grafica molto semplice e
chiara.
Ma vediamola al lavoro, l’SZ.
E’ proprio sulla strada che questa coupé ricorda maggiormente
quel “ritorno al futuro” a cui accennavamo all’inizio. Si
tratta di un’auto tutto sommato recente e il cui stile, forte e
appariscente, deciso e sconcertante, ha
in sé qualcosa di futuribile. Allo
stesso tempo, però, è a tutti gli effetti un’auto d’altri
tempi: l’atmosfera che si respira a bordo è quella delle sportive
di trenta e più anni fa e, delle sportive di trenta e più anni fa,
questa coupé mantiene anche alcuni difetti.
Andiamo per gradi.
Sconcertante.
E’ questo l’aggettivo usato per definire la linea dell’SZ da
Quattroruote nella sua prova su strada. Alla vettura venne
all’epoca dedicato un articolo di 12 pagine nella rubrica “Top
Car”.
Nella consueta sintesi pregi/difetti operata da Quattroruote in
ognuna delle sue prove su strada, proprio la linea fu uno dei tre
difetti individuati dalla rivista (gli altri due difetti erano il
cambio lento e impreciso e i pochi accessori disponibili). I pregi,
invece, furono identificati nelle ottime caratteristiche di tenuta e
stabilità, nella guida molto sportiva e nello sterzo preciso.
L’SZ era una “sportiva estrema”. Tanto per iniziare, era
faticoso entrare e uscire dal suo piccolo abitacolo a due posti, a
causa della limitata apertura delle portiere. Era anche molto
difficile vedere bene sia ai lati che posteriormente, a causa di una
linea di cintura molto alta, del massiccio alettone e dei
retrovisori molto arretrati.
L’aria che si respirava nell’abitacolo era spiccatamente
corsaiola. C’era lo stretto indispensabile: sedili avvolgenti
molto profilati e bene imbottiti, un assetto di guida prettamente
agonistico, un volante regolabile in altezza e inclinazione, i
comandi molto semplici e disposti con una certa razionalità. Due
piccoli nei erano la pedaliera (troppo sacrificata) e la leva del
cambio (posizionata troppo in avanti e troppo lunga). La
componentistica era quella di gran serie, quindi soprattutto
funzionale e senza indulgere al lusso. Ciò valeva anche per il
blocco dei comandi della climatizzazione, che era quello molto
semplice della normale 75. La finitura era essenziale e il
carattere artigianale della fabbricazione era pienamente avvertibile
soprattutto nella grande plancia avvolgente rivestita di pelle e
nella moquette di copertura del pavimento e della panchetta
posteriore.
Perfettamente in linea con questa filosofia erano anche le
dimensioni ridottissime del vano portabagagli, in cui poteva trovare
spazio solo il ruotino di scorta.
Una volta avviato il motore, l’SZ più che offrire prestazioni
superiori trasmetteva sensazioni uniche e coinvolgenti. Il
propulsore, pur con una “cavalleria” di poco più di 200 cv,
riusciva ad appagare anche lo sportivo più esigente. Certo, su un
autotelaio del genere, avrebbe ben figurato l’eccezionale 3.0 V6
24V che avrebbe debuttato da lì a poco sulla 164 e da cui deriva
direttamente anche il 3.2 V6 24V di 147 e 156 nelle versioni GTA, ma
anche il “vecchio” 3.0 V6 con due valvole per cilindro non si può
dire che recitasse male la sua parte. La coppia e la sua
ripartizione nell’arco dei giri era ottima e garantiva una
“prontezza di riflessi” invidiabile, una caratteristica che
faceva dell’SZ un’auto adatta anche alla normale circolazione di
tutti i giorni. La
velocità massima dichiarata dalla Casa era di 245 Km/h con una
accelerazione da 0 a 100 Km/h in 7 secondi netti.
La velocità di punta rilevata da Quattroruote fu di 241,038 Km/h in
V marcia; il classico 0-100 Km/h venne effettuato in 7,5 secondi; il
chilometro con partenza da fermo venne percorso in 27,6 secondi con
una velocità d’uscita pari a 195,9 Km/h.
La rivista Auto, da parte sua, rilevò una velocità massima di
239,870 con un'accelerazione 0-100 Km/h in 7,58 secondi; il
chilometro con partenza da fermo venne coperto in 27,9 secondi.
L’SZ era
caratterizzata da un cambio dalla rapportatura lunga: quindi, era
indubbiamente veloce, ma era fatalmente penalizzata in termini di
accelerazione e ripresa, situazioni in cui influiva anche il non
eccezionale rapporto peso/potenza.
Ma se tutto questo è vero, altrettanto vero è anche che la forza
dell’ SZ era nella sua meravigliosa guidabilità, un aspetto sotto
il quale questa grande Alfa non temeva confronti neanche con vetture
molto più potenti. La sua agilità, infatti, risultò notevolmente
superiore alla media delle supersportive dell’epoca e soprattutto
la pista era il suo ambiente naturale. Scriveva Quattroruote:
“Ci sono gran turismo più potenti, più veloci, persino più
sportive, ma forse nessuna possiede la sua facilità di guida né
consente di viaggiare con una tale sicurezza. L’assetto è
caratterizzato da un comportamento neutro, con un inserimento rapido
sulle traiettorie più corrette e un appoggio adeguato sulle ruote
esterne alla curva. Tutto richiede un impegno minimo da parte del
pilota. Il resto diventa facile anche per il meno esperto, che non
ha difficoltà a correggere le traiettorie e a guidare velocemente
senza paura di sbagliare, dato che la SZ sa come nessun’altra
accompagnarlo sino ai suoi limiti elevati. La pronta risposta del
telaio e la rapidità dei cambiamenti d’assetto ne fanno una
vettura ideale sui percorsi misto veloci. Sul bagnato,
l’inevitabile sovrasterzo, determinato dalla sua formula
costruttiva, dalla notevole coppia e dal differenziale autobloccante,
diventa rilevante ma controllabile anche da coloro che si spaventano
al minimo accenno di sbandata. Nella guida più impegnativa o in
situazioni d’emergenza, la SZ ha reazioni immediate e progressive
e ritorna sulle giuste traiettorie con semplici colpi di sterzo. Ha
un passaggio tra sotto e sovrasterzo quasi ideale e ciò significa
che riesce a “cambiare rotta” con molta facilità, senza
sbandate sgradite. Che sportiva fantastica sarebbe questa SZ con un
centinaio di chili in meno e una cinquantina di cavalli in più.”
Un ruolo importante in tutto questo lo aveva senza dubbio
l’assetto piatto e sportivo, ma anche lo sterzo (servoassistito)
era un punto di forza notevole: le sue caratteristiche lo rendevano
capace di comunicare all’avantreno in tempo reale ogni più
piccolo spostamento del volante, permettendo così di costruire
perfette geometrie nelle curve. La grande precisione, comunque, era
affiancata alla leggerezza: anche nei lunghi viaggi non ci si
affaticava.
Una nota dolente era invece il cambio. Come su tutte le Alfa con
meccanica tipo Alfetta, anche la SZ non si distingueva per
precisione e rapidità degli innesti; tra l’altro, la leva
posizionata troppo in avanti costringeva il pilota a movimenti
eccessivi delle braccia per inserire la marcia giusta.
Anche se, da sempre, per gli alfisti non rappresenta l’aspetto
determinante per scegliere la propria auto, è bene dedicare un
piccolo cenno al confort. Riportiamo le parole di Quattroruote:
“Il rumore è indubbiamente elevato e nell’abitacolo abbiamo
rilevato un numero di decibel superiore a quello di una Ferrari. Le
sospensioni hanno uno strano comportamento, morbido ma rigido, un
controsenso solo apparente, perché esse in realtà forniscono un
discreto molleggio in condizioni normali, ma si irrigidiscono molto
alla minima disuguaglianza del terreno, provocando una serie di
traballamenti e di saltelli accettabili solo da una fascia di
clientela particolarmente sportiva.”
Quattroruote, seguendo una consuetudine consolidata, nella sua prova
su strada affidò la SZ alle impressioni di un pilota di Formula 1:
Ivan Capelli, il quale provò l'auto sulla pista Alfa Romeo di
Balocco.
Capelli iniziò con il giudicare eccessivamente vistosa la linea:
evidentemente, i tempi non erano ancora maturi per apprezzare uno
stile così forte. Allo stesso tempo, però, il pilota ammise che
proprio quella linea conferiva alla nuova coupé “una forte carica
di personalità”.
Riguardo al motore, Ivan Capelli si espresse così: “E’ un bel 6
cilindri. Dà l’impressione di possedere una buona carica di
potenza, perché è sempre disponibile anche ai bassi regimi e sale
di giri rapidamente; non ha buchi di funzionamento e anche quel suo
rumore di auto da corsa mi sembra persino gradevole. Nel complesso,
il motore mi è piaciuto ma una cura ricostituente di cavalli gli
farebbe sicuramente bene migliorando ulteriormente anche la già
notevole guidabilità: infatti, nelle curve più veloci mi mancava
un po’ di potenza per poter mantenere le traiettorie giuste e così
l’SZ sottosterzava troppo.”
Lo sterzo: “E’ un servo molto buono, soprattutto quando si va più
forte. E’ preciso, con una giusta leggerezza, impartisce ordini
netti all’avantreno e quindi permette traiettorie ideali e
correzioni efficaci. Va meno bene nella fase iniziale della
sterzata.”
Se motore e sterzo furono quindi giudicati molto bene, lo stesso non
si può dire del cambio: “Innanzitutto la leva non è facile da
manovrare; poi il comando è ancora lento e soprattutto poco
preciso. I rapporti mi sono sembrati un po’ lunghi e, nonostante
l’ottima elasticità del motore, la quinta è sfruttabile al
meglio solo nei lunghi rettilinei.”
Ma, come già abbiamo avuto modo di sottolineare, era sul versante
della guidabilità che la SZ si poteva prendere una grande
rivincita.
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Disse
a tal riguardo Capelli: “E’
una delle auto più emozionanti e divertenti. Ha un comportamento
assolutamente personale, con in più il fascino della guida vecchio
stile. Ottimo il suo assetto assolutamente neutro, molto utile
soprattutto nell’inserimento in curva: non richiede alcuna manovra
specifica o specializzata. Si ha l’impressione di essere al
volante di un’auto da corsa. Tuttavia anche il meno esperto si può
divertire moltissimo senza correre il minimo rischio perché l’SZ
quasi si guida da sé. Tiene bene le traiettorie senza deviarne
troppo. Solo se il pilota lo vuole diventa sovrasterzante: si dà un
po’ più di gas e la vettura chiude dolcemente la curva con la
coda. Persino sul bagnato la sua guidabilità rimane intatta e il
sovrasterzo non è mai violento. Sullo sconnesso le sue sospensioni
mostrano la corda, saltellano un po’ troppo e non riescono a
mantenere il miglior contatto col terreno, compromettendo in qualche
modo l’eccellente tenuta.”
Insomma, un’auto stradale col carattere di un’auto da
competizione, con l’unico vero limite di avere un motore
sottodimensionato rispetto all’autotelaio e un cambio dalla
manovrabilità migliorabile.
Questo
era la SZ: un’auto futuribile fuori e “vecchio stile”
nell’anima. Decisamente “vecchio stile” era anche il modo in
cui l’SZ era stata concepita ed era nata: era il punto
d’incontro tra una grande industria automobilistica (il Gruppo
Fiat) e uno storico carrozziere (Zagato). Salirvi a bordo e
guidarla, già nel 1990 era come fare un tuffo nel passato, un
passato in cui tutte le sportive erano normalmente estreme e poco
indulgenti alla comodità e al lusso. Ovviamente, con tutto ciò che
questo comportava: un assetto e uno sterzo ottimi, ma anche un
cambio lento e impreciso, un livello di finitura artigianale e
piuttosto approssimativo, un rumore davvero impressionante
nell’abitacolo, un confort pressoché nullo. Era un’auto pensata
per le piste, piuttosto che per le normali strade. E proprio sulle
strade di ogni giorno il suo ottimo assetto poteva entrare in crisi,
ma ciò era normale per un’auto nata più per aggredire i cordoli
che il pavè di alcune strade cittadine. In definitiva, un’Alfa
senza compromessi, come del resto anche lo stile personalissimo
mirava a far intuire già al primo sguardo.
La SZ restò in listino sino all’aprile 1996.
Nel
giugno 1993, la SZ venne affiancata da una versione spider
strettamente derivata dalla coupé: si trattava della RZ (Roadster
Zagato), la quale venne inserita in listino al prezzo di
106.853.000 mila lire; sempre nel giugno 1993, il prezzo della SZ
era di 100.961.000 lire. Anche la RZ era assemblata direttamente
dalla Zagato.
Rispetto
alla SZ, le modifiche estetiche più rilevanti erano state apportate
al parabrezza (la cui altezza era stata ridotta di 50 mm), ai
cristalli laterali che ora erano più bassi e anche alla coda che
era stata ridisegnata per trovare un alloggiamento destinato a
contenere la capote ripiegata.
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Nulla
di nuovo, invece, per quanto riguardava l'abitacolo che, quindi,
manifestava gli stessi limiti presenti sulla coupé: uno spazio
molto limitato e una finitura in alcuni punti approssimativa. Il
posto guida era anche qui di impostazione sportiva, ma questa qualità
era (esattamente come nell'SZ) in parte compromessa dalla pedaliera,
troppo ravvicinata e disassata rispetto al sedile, e dalla leva del
cambio, troppo lontana e quindi difficile da raggiungere. Inoltre, a
capote chiusa, il poco spazio longitudinale (ulteriormente ridotto
dall'abbassamento del parabrezza) rendeva complicato a chi superava
il metro e ottanta di altezza trovare una comoda posizione sul
sedile: non si poteva stare dritti perché si toccava la capote con
la testa e non si poteva stare neanche raccolti perché le ginocchia
sfioravano il volante. Insomma,
anche dal punto di vista ergonomico, la RZ e la SZ erano macchine
d'altri tempi. Ma,
questi problemi a parte, la plancia (identica a quella dell'SZ)
risultava molto piacevole con una affascinante impostazione retrò
rispetto alla quale, però, anche qui stonava un po' il blocco
climatizzazione della 75, tra l'altro poco adatto ad una vettura da
quasi 107 milioni di lire. Meccanicamente,
la RZ era l'esatta fotocopia della SZ e, dunque, anche il
comportamento stradale ricalcava quello eccellente della coupé. Una
nota negativa, però, era rappresentata anche in questo caso dalla
massa, la quale era ulteriormente aumentata rispetto alla SZ: il
peso in ordine di marcia era infatti passato da 1280 Kg a 1380 Kg.
Ciò vuol dire che le considerazioni al riguardo fatte per la coupé
valgono a maggior ragione per la spider e i 207 cv risultavano in
questo caso ancor di più sottodimensionati rispetto ad un
autotelaio degno di una vera e propria auto da competizione. La
Casa dichiarava per la sua RZ una velocità di punta di 230 Km/h. Di
questa spider, Quattroruote non ha effettuato mai una prova su
strada, prova invece compiuta dalla rivista Auto, la quale rilevò
per la RZ una velocità massima di 228,800 Km/h con un'accelerazione
da 0 a 100 Km/h in 7,73 secondi; il chilometro con partenza da
fermo, invece, venne coperto in 28,54 secondi. La
RZ, dunque, non permetteva accelerazioni brucianti in senso
assoluto, anche perché il cambio manteneva la stessa migliorabile
manovrabilità della SZ. A questa mancanza di precisione e rapidità,
si aggiungeva (come già nella coupé) anche una rapportatura
piuttosto lunga, proiettata soprattutto a privilegiare la velocità
di punta. In
compenso, però, il comportamento stradale era inappuntabile, con un
assetto semplicemente perfetto e con uno sterzo che permetteva di
impostare con precisione millimetrica le traiettorie e
recuperare con facilità gli eventuali sovrasterzi. Come
anche la SZ, la RZ restò in listino sino all'aprile 1996.
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